La vulnerabilità nel lavoro di cura
Nel contesto sanitario, l’emozione è spesso considerata una distrazione. Un inciampo. Qualcosa da gestire in fretta, da relegare dietro una facciata professionale. Eppure, chi lavora nella cura si trova ogni giorno esposto a esperienze cariche di significato: il dolore altrui, la perdita, la gratitudine, l’impotenza. Non esistono filtri che proteggano davvero da questo impatto. Si può imparare a contenerlo, ma non a cancellarlo.
In molti ambienti, emozionarsi è ancora visto come un limite. Si sottintende che un bravo operatore debba restare freddo, come se la distanza emotiva fosse sinonimo di competenza. Ma cosa perdiamo quando inseguiamo questa idea?
L’immaginario dell’efficienza emotivamente neutra
L’operatore ideale, secondo una certa narrazione, deve essere lucido, stabile, razionale. Mai coinvolto, mai turbato. In realtà, questa immagine è costruita su una semplificazione che esclude la complessità del lavoro relazionale. Nessuno è immune alla sofferenza, e chi lo è diventato del tutto corre il rischio di essersi disconnesso anche da ciò che rende efficace una relazione di cura.
La presenza emotiva non ostacola la professionalità. Al contrario, la rende più autentica e più mirata. Comprendere il vissuto dell’altro non significa farsi travolgere, ma saper leggere tra le righe. Questo richiede intelligenza emotiva, non freddezza.
Emozioni e lucidità: una convivenza possibile
L’errore non è provare emozioni, ma ignorarne la funzione. Un’emozione accolta con consapevolezza può guidare le scelte, evidenziare un bisogno, far emergere un dubbio etico. Al contrario, la rimozione sistematica delle emozioni crea un vuoto, una distanza che può diventare negligenza o automatismo.
Molti operatori si accorgono, con il tempo, che il vero problema non è commuoversi una volta ogni tanto, ma accorgersi di non sentir più nulla. In quel silenzio emotivo può annidarsi il burnout, la depersonalizzazione, il disinvestimento.
L’empatia come risorsa, non come ostacolo
Essere empatici non significa aderire alle emozioni dell’altro in modo acritico. Significa saperle riconoscere, legittimare, restando radicati nel proprio ruolo. L’empatia permette di comunicare meglio, di anticipare bisogni, di costruire alleanze terapeutiche più solide. Anche il solo fatto di essere percepiti come presenti e non indifferenti può modificare l’esperienza soggettiva del paziente.
Negare le emozioni, invece, non le fa sparire. Le spinge in profondità, dove continuano ad agire in modo incontrollato. Non è raro che chi si impone una maschera di neutralità assoluta finisca per esplodere in momenti inopportuni, o per sviluppare una forma di cinismo come strategia difensiva.
Una nuova idea di professionalità
Essere professionali non significa recitare un copione emotivamente sterile. Significa sapere chi si è, riconoscere i propri limiti, accettare che alcune situazioni toccano corde personali. Significa anche decidere ogni volta come restare presenti, anche dentro il disagio, senza negarlo o subirlo.
La competenza tecnica resta fondamentale. Ma da sola non basta. Chi lavora nella cura ha bisogno anche di competenze relazionali, etiche, emotive. Solo integrando questi aspetti si costruisce una pratica davvero efficace e sostenibile.
Commuoversi non è un errore. È un segnale che stiamo ancora vedendo la persona, e non solo il caso clinico. È una traccia di umanità che, se ben gestita, diventa uno strumento prezioso.