Imparare a non prenderla sul personale
Ci sono giorni in cui il paziente ti guarda con sospetto. Ti tratta con freddezza, ti risponde a monosillabi, ti ignora. Altri in cui ti lancia frecciate velenose, si lamenta in continuazione, ti accusa di cose che non hai fatto. Se lavori nella cura – che tu sia OSS, infermiere, ACSS o ASA – sai esattamente di cosa sto parlando.
E ogni volta, anche se cerchi di restare professionale, dentro qualcosa si muove. Ti chiedi:
“Perché ce l’ha con me?”
“Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
“Ma come fa a non vedere che sto solo cercando di aiutarlo?”
Il paziente arrabbiato non ce l’ha (sempre) con te
La verità è che spesso non sei tu, ma il tuo ruolo. La tua divisa. Il tuo “essere parte del sistema” che il paziente vive come oppressivo, ingiusto, o semplicemente inaccettabile.
Tu sei il volto visibile di una condizione che lui o lei non riesce ad accettare: la malattia, la dipendenza, il dolore, la perdita di controllo. E quindi, come un parafulmine, raccogli la rabbia che non ha dove andare.
A volte sei il primo bersaglio comodo. Altre volte sei semplicemente “quello lì”, in quel momento, in quel posto sbagliato. E capita anche con i pazienti che conosci da mesi. Anche con quelli che, il giorno prima, ti hanno ringraziato.
Il mestiere della cura non è un concorso di popolarità
Accettarlo è faticoso, ma necessario: non verrai sempre apprezzato. Nonostante l’impegno, la gentilezza, la pazienza, la professionalità. Nonostante tu faccia il massimo, ogni giorno.
Non sei lì per piacere. Sei lì per curare, assistere, accompagnare. E questo, per quanto nobile, non ti garantisce alcun premio di simpatia.
Tanto più che chi sta male, a volte, non ha più filtri. Non ha voglia di socializzare, non è in grado di esprimersi con equilibrio. E tu sei nella traiettoria di quel disagio.
Sentirsi feriti è umano. Restare professionali è un’arte.
Non prenderla sul personale non significa essere di ghiaccio. Significa proteggersi senza diventare cinici. Significa dire: “Ok, oggi questa persona ha riversato su di me qualcosa di pesante. Ma non sono io quella cosa. Io sono altro.”
Magari ne parlerai con un collega fidato, magari ti prenderai cinque minuti di silenzio alla fine del turno. Magari scriverai due righe per sbollire.
Va bene. Anzi, è sano.
Ciò che conta è non lasciarsi deformare. Non lasciarsi corrodere dall’ostilità, non diventare a propria volta rigidi, sarcastici, vendicativi. Perché poi, poco a poco, smetti di curare. Ti proteggi, sì, ma a scapito del tuo stesso senso.
Umanità sì, ma con confini chiari
Empatia non vuol dire farsi trattare male. Se un paziente insulta, aggredisce, umilia, è giusto segnalarlo, parlarne, far valere i limiti. Il rispetto è una strada a doppio senso.
Ma in tante situazioni intermedie – piccoli fastidi, accuse infondate, scontrosità ripetute – si può imparare a filtrare. A restare calmi, presenti, coerenti.
Anche questo è cura.
Tu come gestisci queste situazioni? Hai un tuo modo per non portarti a casa il disprezzo altrui?
Scrivilo nei commenti. Potrebbe aiutare qualcun altro a non sentirsi solo.