31 Mag 2025, Sab

Quando il docente non crede alla mia neurodivergenza

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In ambito sanitario, dove efficienza, presenza e precisione sono date per scontate, essere neurodivergenti può rappresentare una difficoltà aggiuntiva, non tanto nella pratica, quanto nel far riconoscere la propria diversità di funzionamento. Le neurodivergenze – tra cui ADHD, autismo, dislessia, disprassia, ansia cronica o sindromi da disregolazione – sono spesso invisibili. E quando si manifestano, non è raro che vengano interpretate come scarso impegno, maleducazione o disorganizzazione.

Uno degli ostacoli maggiori non è la neurodivergenza in sé, ma il fatto che venga banalizzata, minimizzata o ignorata. Il problema si aggrava quando, nel contesto scolastico o di tirocinio, il formatore mette in dubbio la legittimità della condizione. Frasi come “se davvero avessi un problema, si vedrebbe” o “non mi sembri diverso dagli altri” riflettono un’idea ancora molto radicata: che le difficoltà debbano essere manifeste e riconoscibili secondo criteri esterni, altrimenti non esistono.

L’ADHD come esempio emblematico (ma non esclusivo)

Prendiamo l’ADHD, che è una delle neurodivergenze più comuni e allo stesso tempo più fraintese. Spesso viene percepito come semplice disattenzione o iperattività, quando invece coinvolge il funzionamento di tutto il sistema di regolazione dell’attenzione, della motivazione, della memoria operativa e delle funzioni esecutive. Una persona con ADHD può:

  • dimenticare una scadenza importante pur avendoci pensato tutto il giorno,
  • confondere due appuntamenti a causa di una difficoltà di orientamento temporale,
  • avere ottime idee ma non riuscire a trasformarle in un piano d’azione coerente,
  • apparire svogliata quando in realtà è travolta da un sovraccarico interno.

Tutto questo accade mentre spesso la persona si sforza attivamente di “non dare nell’occhio”, di apparire funzionale, adattata, competente. L’impegno è doppio. Il giudizio che riceve è, quasi sempre, di inadeguatezza.

Le qualità nascoste dietro la fatica

La realtà è che molte persone neurodivergenti portano con sé competenze molto preziose per il mondo delle cure. Nel caso dell’ADHD, ad esempio, si riscontrano spesso:

  • forte prontezza nelle emergenze e nei contesti dinamici;
  • ipersensibilità ai segnali non verbali e cambiamenti dell’umore nei pazienti;
  • rapidità nel collegare elementi apparentemente scollegati;
  • attenzione sincera e intensa quando qualcosa è coinvolgente o significativo;
  • intuizioni originali per risolvere problemi pratici;
  • capacità di improvvisazione utile in contesti caotici o di crisi;
  • senso di giustizia e attenzione ai più fragili;
  • elevata empatia, anche se mascherata da goffaggine sociale;
  • dedizione profonda in situazioni che attivano un legame emotivo;
  • memoria vivida per esperienze forti o insolite, utile per costruire relazioni autentiche con gli assistiti.

Queste qualità non rientrano facilmente nei criteri di valutazione scolastica, ma si rivelano fondamentali nella pratica quotidiana del lavoro sanitario.

Il peso della non comprensione

Il paradosso è che queste caratteristiche, invece di essere valorizzate, vengono spesso ignorate o ridotte a “esagerazioni di carattere”. Gli apprendisti neurodivergenti devono così non solo imparare come tutti, ma anche costantemente giustificare il proprio modo di imparare, le proprie reazioni emotive, la propria struttura di funzionamento. Il tutto mentre affrontano lo stesso carico di scuola, stage, lavoro (e talvolta anche figli e famiglia) di chi non ha queste difficoltà aggiuntive.

Molti, semplicemente, smettono di parlarne. Per vergogna, per stanchezza, o perché – dopo aver chiesto aiuto e non essere stati creduti – non si sentono più autorizzati a farlo.

Quando i giudizi peggiorano tutto

Va anche detto che ci sono persone effettivamente inadatte alla professione sanitaria. Ma non è di loro che si sta parlando. E anche in quei casi, l’uso di frasi umilianti e svalutanti resta un errore educativo. Un’allieva in difficoltà non merita di sentirsi dire “non sei fatta per questo mestiere” solo perché dimentica una cartella o arriva in ritardo a una riunione. Esistono modi rigorosi ma rispettosi per accompagnare, anche nei momenti di crisi.

Allo stesso modo, non è vero che l’ansia, la sensibilità o l’instabilità emotiva escludano automaticamente da una professione di cura. Chi lavora nel settore lo sa bene: nessuno è immune da periodi difficili, né dai limiti della propria psiche. La questione non è negare, ma elaborare. E imparare a trasformare le proprie fragilità in strumenti di consapevolezza.

Formare non è giudicare

Una formazione che si limita a esigere standard senza comprendere i punti di partenza e i percorsi personali non è inclusiva. Ma soprattutto, non è efficace. Il giudizio affrettato cancella il processo, la riflessione, e distrugge l’alleanza educativa. La neurodivergenza non chiede trattamento speciale, ma riconoscimento. Esiste, funziona in modo diverso, e ha bisogno di essere vista per poter funzionare bene anche dentro i contesti sanitari.

Chi forma, valuta e accompagna ha un compito complesso: non deve semplificare, ma nemmeno irrigidirsi. La diversità nei modi di apprendere, relazionarsi, organizzarsi, non è un ostacolo da correggere, ma una realtà da integrare. Non si tratta di concedere vantaggi, ma di capire come aiutare chi ha un potenziale a esprimersi, invece di scoraggiarlo per come si muove. Perché chi lotta ogni giorno con ciò che per altri è semplice, spesso impara a comprendere la sofferenza meglio di chi non l’ha mai dovuta attraversare.

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