29 Mag 2025, Gio
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Toccare non è solo un gesto tecnico

Nel lavoro di cura, toccare è inevitabile. Ma non è mai una semplice manovra. Toccare è un atto complesso: richiede attenzione, misura e la consapevolezza che quel corpo, che ci viene affidato ogni giorno, non è mai solo un corpo. È un luogo abitato, attraversato da esperienze, emozioni, confini. Ogni gesto fisico porta con sé un significato che va oltre il bisogno pratico.

La vicinanza fisica fa parte del nostro mestiere. Non si può assistere a distanza. Ma la vera professionalità si misura nel saperci avvicinare senza invadere, nel riconoscere quando è il momento di fermarsi, nel cogliere ciò che una persona non dice, ma comunica con uno sguardo, un irrigidimento, una tensione improvvisa. La differenza tra un gesto utile e uno sgradito, tra una presenza rassicurante e una presenza troppo vicina, sta tutta lì.

Il corpo ha i suoi confini, anche quando non si vedono

Nella relazione di cura, che si tratti di un contesto clinico, terapeutico o di un semplice atto di conforto quotidiano, il contatto fisico non è mai un gesto neutro o privo di significato. Ogni volta che una mano sfiora un’altra, o che le dita si posano delicatamente su una spalla, avviene uno scambio di energie, di emozioni e di intenzioni. Alcune parti del corpo, come le mani e le spalle, sono percepite come aree relativamente “accessibili” e socialmente accettabili per un contatto fisico. Un tocco su queste zone è generalmente considerato meno invasivo e può trasmettere un senso di conforto e presenza rassicurante. Ad esempio, una stretta di mano calorosa all’inizio di un incontro terapeutico, oppure una mano posata sul braccio in segno di vicinanza, possono fungere da primo passo per instaurare una relazione di fiducia e apertura reciproca.

Altre parti del corpo, tuttavia, provocano reazioni che vanno ben al di là di un semplice gesto di contatto. Zone come il viso, il collo, e il torace sono spesso considerate più sensibili e suscettibili di evocare reazioni emotive più profonde, anche a livello inconscio. Un tocco sul volto, in certe circostanze, può essere percepito come un gesto di intimità e cura che va dritto al cuore di chi lo riceve, mentre sentirsi toccare il collo può generare un senso di vulnerabilità per il ricevente che si trova, magari, disteso su un lettino da visita o da massaggio. Queste reazioni possono variare notevolmente a seconda del contesto e del tipo di relazione esistente tra le persone coinvolte.

Le zone del corpo più intime, quelle che spesso vengono coperte e protette sia fisicamente che simbolicamente, richiedono un livello di rispetto assoluto, una comunicazione trasparente e chiara e, soprattutto, del tempo per sviluppare un rapporto di fiducia che è essenziale per qualsiasi forma di contatto fisico. La persona deve poter sentire di avere il controllo della situazione e di essere completamente a proprio agio prima di consentire a qualcuno di avvicinarsi a queste parti del suo corpo. Ciò è particolarmente vero in contesti medici o terapeutici, dove il rispetto per i confini personali e il consenso informato devono essere posti al di sopra di ogni altra considerazione.

Conoscere questa “geografia sensibile” non significa solo sapere dove mettere le mani. Significa capire cosa stiamo attraversando quando tocchiamo un corpo: una soglia, un limite, un territorio che non è nostro. Un tocco, anche involontario, può portare conforto o attivare disagio, e in certi casi anche paura o vergogna. Per questo serve un’attenzione profonda non solo al gesto, ma alla persona che lo riceve.

La tutela della sfera privata si costruisce nei dettagli

La tutela della sfera personale non si limita ai momenti “critici” dell’assistenza, ma inizia molto prima. Parte dal modo in cui varchiamo la soglia di una stanza, da come ci presentiamo e da quanto spazio permettiamo all’altro di mantenere la propria integrità come un individuo completo, anche quando si trova nella necessità di chiedere supporto.

Salvaguardare l’intimità implica, quotidianamente:

  • Bussare prima di entrare, anche se abbiamo fretta.
  • Presentarsi e spiegare cosa stiamo per fare, anche se sembra scontato.
  • Chiedere il permesso prima di aprire cassetti o spostare oggetti personali.
  • Scoprire solo la parte necessaria del corpo, ricoprendola subito dopo.
  • Usare schermi o paraventi, se presenti, senza dare per scontato che “tanto non importa”.

Non è burocrazia del gesto: è riconoscere all’altro il diritto a non sentirsi ridotto alla sola funzione per cui lo assistiamo. Anche in una situazione fragile, chi riceve cure ha bisogno di sentirsi rispettato nei dettagli, non solo accudito.

Il contatto è comunicazione. Sempre.

Toccare è una forma di comunicazione, anche quando non diciamo nulla. Per questo dev’essere chiaro, coerente, leggibile. Un contatto che trasmette incertezza, fretta o nervosismo genera disagio. Un contatto che arriva senza spiegazione può sembrare distratto, invadente, addirittura minaccioso.

Un gesto fatto con presenza, invece, può trasmettere sicurezza, attenzione, empatia. E non servono grandi azioni. A volte è sufficiente appoggiare una mano con delicatezza, accompagnare un movimento con calma, guardare negli occhi prima di iniziare. Il corpo, anche quando non parla, ascolta tutto.

Il contatto professionale non è mai impersonale

Perché un contatto sia davvero professionale, non basta che sia utile. Deve essere anche riconosciuto come accettabile da chi lo riceve. E questa percezione cambia da persona a persona. C’è chi accetta la vicinanza con naturalezza, e chi la vive come un’invasione. C’è chi apprezza un tocco sulla spalla, e chi lo interpreta come un’intrusione. Non esistono regole rigide: esiste la capacità di osservare, ascoltare, adattare.

Ogni persona ha la propria storia corporea. Esperienze, traumi, abitudini, cultura: tutto questo entra in gioco nel modo in cui si vive il contatto. Per questo, toccare bene non è un’abilità tecnica, ma una forma di attenzione relazionale. Serve disponibilità, rispetto, e la pazienza di aggiustare il gesto, anche quando ci sembrava corretto.

Quando il limite lo attraversano gli altri

Può verificarsi anche la situazione opposta: che siano i professionisti della cura a ricevere attenzioni indesiderate. Questo fenomeno, sebbene meno discusso, è purtroppo più comune di quanto si possa immaginare.

Queste attenzioni possono tradursi in gesti espliciti che superano i confini del rispetto e della professionalità. Gesti che, in alcuni casi, sfociano in contatti fisici inappropriati o richieste fuori luogo che mettono a disagio il professionista, invadendo il suo spazio personale e, in casi peggiori, minando la sua sicurezza sul lavoro. Questo tipo di comportamento non solo influisce negativamente sulla dignità del lavoratore, ma può anche compromettere la qualità delle cure fornite.

È interessante notare che, in certe situazioni, si tende a giustificare queste azioni con spiegazioni come “è confuso” o “non sa cosa sta facendo”. Tali affermazioni, sebbene talvolta possano riflettere una parte della realtà, rischiano di essere utilizzate come scuse che perpetuano il problema piuttosto che affrontarlo. Mentre è vero che ci sono condizioni mediche o psicologiche che possono influenzare il comportamento delle persone, questo non dovrebbe mai servire come giustificazione per oltrepassare i confini del rispetto reciproco.

La risposta non deve risultare aggressiva, bensì deve essere chiara. È importante dire “no” con tranquillità, creare una distinzione, riferire quanto è accaduto e confrontarsi con il team. Proteggere sé stessi non è una dimostrazione di debolezza, bensì un atto di responsabilità. È fondamentale per il proprio benessere, per l’armonia del reparto e per la qualità delle relazioni interpersonali.

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