Quando il rendimento cambia, e nessuno vuole chiedersi perché
Ci sono momenti in cui chi ci sta accanto comincia a cambiare. Non accade all’improvviso, ma a piccoli passi. Una presenza un po’ più stanca, un’attenzione che si disperde, una partecipazione che prima c’era e ora si fa più incerta. Nei contesti scolastici e lavorativi, dove i ritmi sono intensi e le aspettative precise, questi segnali non sempre vengono accolti con autentica curiosità o con spirito di comprensione. Anzi, la risposta più frequente è spesso una frase che suona come una chiusura: “Capisco che è in difficoltà, ma tutti abbiamo i nostri problemi.”
Chi la pronuncia non sempre lo fa con durezza. Spesso è una reazione difensiva, oppure un modo per tenere lontano ciò che non si sa gestire. Altre volte è il riflesso di una cultura della performance che vede la fatica come debolezza, e la debolezza come qualcosa che rischia di contagiare. Ma dietro quella frase si nasconde un presupposto implicito: che le difficoltà siano tutte misurabili, confrontabili, superabili con lo stesso sforzo da parte di chiunque. Come se il fatto di essere riusciti a reggere qualcosa ci autorizzasse a pretendere che tutti facciano altrettanto.
Eppure, non tutti partiamo dallo stesso punto. Non tutti abbiamo le stesse risorse, le stesse reti di sostegno, la stessa capacità di chiedere aiuto. Quello che per una persona è una battuta d’arresto momentanea, per un’altra può diventare un punto di rottura. E ciò che spesso manca in questo ragionamento è proprio il riconoscimento della diversità.
I segnali silenziosi della fatica
Nel contesto della formazione sanitaria, questi segnali arrivano molto prima di quanto si creda. Ma bisogna avere occhi disposti a vedere, e tempo per fermarsi a farlo. Uno studente che fino a poco tempo prima era puntuale, attento, partecipe, comincia ad arrivare in ritardo. Porta materiali incompleti, segue con meno concentrazione. Durante le lezioni teoriche prende pochi appunti, si distrae facilmente, evita lo sguardo. I risultati calano, i docenti iniziano a interrogarsi sul fatto che non sembri più “quello di prima”. Ma raramente qualcuno si chiede davvero perché.
È il caso di uno studente in formazione sanitaria che appariva brillante, regolare, affidabile. Finché un giorno ha cominciato a mostrare i segni di un rallentamento: la postura chiusa, l’aspetto trascurato, la perdita di tono nella voce. Quando finalmente ha trovato il coraggio di raccontare, ha parlato di stalking. Una ex compagna che non accettava la fine della relazione, messaggi incessanti, minacce, visite improvvise sotto casa. Non dormiva da settimane. Viveva nel terrore, ma continuava a venire a scuola perché quello era, paradossalmente, l’unico luogo in cui sentiva un minimo di struttura.
Nel mio servizio, c’era una collega in gravidanza. All’inizio la notizia era stata accolta con qualche sorriso, qualche attenzione in più. Ma col passare del tempo, tutto era cambiato. I commenti avevano preso una piega più ruvida. “Adesso bisogna lavorare per lei”, “non ce la fa nemmeno a fare le scale, ma allora stia a casa”, “sempre con la scusa del mal di schiena”. Non le veniva più chiesto se stava bene, ma solo se poteva fare questo o quello. Ogni limite veniva interpretato come pretesto. Eppure, quella donna si stava sforzando in ogni modo di essere presente, di non pesare. Ma la verità è che, in certi contesti, sembra sia più tollerabile l’assenza che la presenza imperfetta.
Un altro esempio, forse meno evidente, ma altrettanto lacerante, è quello di un collaboratore che ha iniziato a lavorare con meno attenzione, dimenticando spesso passaggi che prima eseguiva in automatico. Sembrava più nervoso, si assentava di tanto in tanto senza spiegare. I colleghi cominciavano a pensare che non fosse più motivato. Solo dopo settimane si è scoperto che il figlio stava attraversando un percorso oncologico, e lui faceva la spola tra l’ospedale e il posto di lavoro, nel tentativo di non perdere tutto. Non voleva parlarne. Non sapeva come farlo. Aveva paura che, nel dire la verità, sarebbe stato giudicato inadeguato. E nel frattempo, continuava a reggere da solo un peso impossibile, subendo comunque il giudizio dei colleghi.
Quando il vissuto si rivela, troppo tardi per non vedere
In tutti questi casi, arriva un momento in cui le spiegazioni affrettate non reggono più. La verità si affaccia con delicatezza o con forza, e costringe tutti a rimettere in discussione il proprio sguardo. Perché davanti a un documento medico, a un certificato psichiatrico, a una rivelazione su un familiare gravemente malato, le nostre interpretazioni improvvisate si mostrano per quello che sono: tentativi di semplificare ciò che non volevamo approfondire.
A quel punto, si apre una possibilità. Possiamo continuare come se nulla fosse, restare nei limiti delle regole e delle valutazioni, pensando che se quel nostro collega vuole stare fra noi lo deve fare solo alle nostre condizioni, oppure scegliere di cambiare postura. E riconoscere che la vera responsabilità – nel lavoro come nella scuola – non è solo quella di trasmettere competenze o dare soluzioni assistenziali, ma anche di offrire un contesto dove la complessità possa essere accolta, almeno in parte.
Quando la cura comincia in aula
Nel mondo della formazione sanitaria, la credibilità di ciò che insegniamo passa anche da come trattiamo chi è in difficoltà. Non possiamo spiegare che cos’è l’empatia se la neghiamo nei corridoi. Non possiamo aspettarci futuri operatori capaci di ascoltare, se noi per primi non sappiamo ascoltare chi si sta spegnendo davanti a noi. E questo non si insegna con le slide, ma con la presenza, la disponibilità, il coraggio di restare.
Sì, esiste il rischio che qualcuno abusi della nostra fiducia. Esistono storie costruite, esistono scuse. Ma sono fragili. Si contraddicono, perdono consistenza nel tempo. Le sofferenze vere, invece, si riconoscono nella coerenza dei dettagli, nella vergogna di chi chiede aiuto a bassa voce, nella fatica evidente di chi vuole tenere insieme tutto ma sta crollando dentro.
Chi riceve uno spazio in quei momenti non lo dimentica. E spesso, quel gesto diventa il punto da cui ripartire.
La lezione più difficile: esserci davvero
Ogni scelta di presenza lascia un’impronta. Anche se non ne vediamo l’effetto immediato. Gli studenti imparano da come trattiamo l’incertezza, i colleghi osservano cosa accade quando qualcuno si rompe. Ogni volta che decidiamo di dare valore a una persona anche se non è “in forma”, trasmettiamo l’idea che il valore non dipende solo dal rendimento.
In una scuola o in un’équipe, il modo in cui gestiamo i momenti difficili costruisce la cultura del gruppo. O la frantuma.
Non tolleranza, ma scelta
Alla fine non si tratta di stabilire quanto possiamo tollerare. Si tratta di scegliere che tipo di luogo vogliamo abitare. Vogliamo un ambiente dove le persone si sentano obbligate a nascondere la propria vulnerabilità per essere accettate, o uno spazio in cui sia possibile dirsi anche quando si è fragili?
Chi viene accolto mentre attraversa una tempesta non dimentica facilmente quella mano tesa. E spesso, sarà proprio lui – o lei – la prima persona a tendere la mano quando un altro cadrà.
Se davvero vogliamo formare curanti, dobbiamo cominciare dalla qualità delle nostre relazioni. E da come rispondiamo quando qualcuno, invece di brillare, ci mostra la propria ombra.