28 Mag 2025, Mer
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Nel contesto dell’assistenza, la relazione con i familiari rappresenta una componente essenziale e inevitabile della quotidianità, ma al contempo costituisce uno degli aspetti più complessi da gestire. Chi opera in ospedale, nelle case di riposo o in qualunque struttura sociosanitaria ne è ben consapevole: esistono familiari collaborativi, rispettosi e premurosi, ma vi sono anche quelli che sembrano entrare nella struttura con l’intento esclusivo di individuare qualunque imperfezione.

In alcuni casi basta poco: un bicchiere non perfettamente a portata di mano, un pigiama sostituito nel “momento sbagliato”, una parola detta in fretta. Episodi minimi che diventano il pretesto per lamentele, segnalazioni, o semplici occhiatacce cariche di giudizio.

Osservando più attentamente, dietro quei comportamenti che ci sembrano ostili o eccessivi, si celano spesso reazioni profondamente umane, sebbene possano risultare difficili da interpretare e accettare, specialmente quando mancano solo tre giorni alle ferie!

Dietro la critica, una colpa che non si dice

A eccezione di situazioni particolari, come nel caso di persone con gravi disturbi psichiatrici, comportamenti violenti o che abbiano avuto esperienze deludenti con il sistema sanitario in passato, molti familiari che manifestano rigidità nei confronti del personale sanitario non lo fanno per una reale mancanza di fiducia. Piuttosto, questa attitudine è spesso dovuta al fatto che stanno affrontando qualcosa che faticano ad accettare.

Quando una persona cara entra in una struttura, per motivi di salute, fragilità o assistenza continuativa, per chi resta può nascere un senso di fallimento profondo, spesso non riconosciuto. Non tutti hanno la forza di dire: “avevo bisogno d’aiuto, non ce la facevo più”. Così, quel senso di colpa trova una via alternativa per esprimersi. E diventa ossessione per i dettagli. Il “come” diventa più importante del “perché”.

In quelle dinamiche emotive non dichiarate, ogni errore percepito, ogni disattenzione anche minima, rafforza l’idea interiore di aver fatto la scelta sbagliata. Ed è più facile riversare questa tensione su chi è fisicamente lì, presente, in prima linea: il curante, l’operatore, l’infermiere.

Quando la rabbia serve a tenere insieme i pezzi

Non è raro che i famigliari più difficili siano anche quelli più presenti. Quelli che arrivano ogni giorno, che controllano la lista delle terapie, che chiedono conto del perché e del come. A prima vista possono sembrare invadenti, ma spesso stanno cercando, inconsciamente, di rimanere attaccati a una situazione che non riescono a controllare del tutto. Il bisogno di “fare qualcosa” prende il posto dell’accettazione, che in certi momenti è semplicemente troppo dolorosa.

Per chi lavora nel sistema, questo atteggiamento può diventare una fonte di stress continuo. Ma riconoscere che non si tratta sempre di attacchi personali, bensì di un dolore che cerca sfogo, può aiutare a non lasciare che quella tensione entri nel proprio vissuto professionale ed emotivo.

I più critici, a volte, sono anche i più grati

C’è un aspetto che molti operatori conoscono bene, ma che difficilmente si racconta all’esterno. Spesso, proprio i famigliari che durante l’assistenza si sono mostrati più difficili, più pignoli, più pronti alla critica, sono gli stessi che, una volta che il loro caro è venuto a mancare, si rivelano capaci di una gratitudine profonda e sincera.

Quando la tensione si allenta, quando non c’è più nulla da “difendere”, emerge con chiarezza tutto ciò che è stato visto e compreso anche nei momenti più critici. E allora arrivano strette di mano, parole sentite, lettere lasciate in reparto. “Grazie per la pazienza. Lo so che non è stato facile. Ma avete fatto tutto il possibile”.

Sono momenti che riconciliano. Che danno senso. Che aiutano a ricordare perché, nonostante tutto, valga la pena fare questo mestiere.

Abitare l’emotività altrui senza farsene travolgere

Lavorare nella cura significa entrare in contatto continuo con l’emotività delle persone: non solo dei pazienti, ma anche di chi li accompagna. E non sempre si viene accolti con fiducia o rispetto. A volte si fa da contenitore per la frustrazione, per la paura, per una rabbia che non sa dove andare.

Non si tratta di giustificare ogni comportamento, né di accettare tutto senza filtri. Esistono confini professionali, e devono essere mantenuti. Ma comprendere le dinamiche che muovono certe reazioni può aiutare a non vivere ogni critica come un attacco, e a leggere il disagio altrui con maggiore lucidità.

I famigliari non sono “serpenti”, anche se a volte mordono. Sono persone che affrontano, ciascuna a modo suo, un passaggio faticoso: la malattia, la perdita di autonomia, il lutto anticipato.

E spesso, l’unico modo che trovano per restare presenti è quello di restare vigili, anche oltre il necessario.

Nel momento in cui avviene, può essere difficile da gestire. Ma con il tempo, molti curanti imparano a vedere quei famigliari “difficili” sotto una luce diversa. Non come antagonisti, ma come persone che si portano dentro domande, paure e tensioni che hanno più a che fare con il proprio vissuto che con il lavoro svolto da chi si prende cura.

Accogliere queste complessità non significa assorbirle, ma saperci convivere senza smettere di fare bene il proprio mestiere. E forse, con un po’ di pazienza, anche scoprire che dietro certi sguardi severi si nasconde, in fondo, un grande bisogno di fidarsi di nuovo.

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