L’inizio che non si dimentica
Ci sono momenti, durante una giornata qualsiasi, in cui un gesto, uno sguardo, una parola di troppo o di meno con un apprendista mi fanno tornare indietro. Rivedo me stesso, giovane, spaesato, in un reparto dove tutto sembrava più grande di me. E mi chiedo: l’apprendista che ero, cosa direbbe dell’operatore che sono diventato?
Ogni tanto, come docente o formatore, ascolto storie che mi lasciano l’amaro in bocca. Apprendisti che raccontano di colleghi duri, scostanti, a volte apertamente ostili. E capita che, guardando i nomi, riconosca in quei colleghi ex-studenti. Proprio quelli che si lamentavano degli stessi trattamenti, degli stessi silenzi, degli stessi “sei solo un apprendista” detti o non detti. E allora mi chiedo: cosa è successo nel frattempo? Cosa ci è successo, dopo? Cosa fa sì che chi ha vissuto sulla propria pelle la fatica dell’apprendere, oggi dimentichi quanto pesavano certi sguardi, certe parole non dette, certi silenzi carichi di disprezzo mascherato da professionalità?
Non dimenticare chi siamo stati
La risposta più semplice è che abbiamo dimenticato com’è sentirsi osservati e giudicati, quella sensazione di avere occhi critici costantemente puntati addosso. Abbiamo dimenticato com’è chiedere aiuto con il cuore che batte, tremando dentro per la paura di sentirsi inadeguati. Ci siamo dimenticati com’era quell’attesa per qualcuno che potesse guidarci senza farci sentire un peso o un disturbo.
Ma forse non abbiamo dimenticato: forse abbiamo memorizzato troppo bene. Ogni umiliazione subita, ogni battuta pungente, ogni sguardo di disapprovazione ci è rimasto dentro. E ora, senza accorgercene, rischiamo di riproporre lo stesso modello. Come se aver sofferto ci desse il diritto di far soffrire. È così che nasce il ciclo della durezza: un rito di passaggio non scritto, ma tramandato. Spesso non è cattiveria, ma una forma difensiva: è più facile imitare chi ci ha fatto male che rompere uno schema. Ma questo schema, se non lo spezziamo, finisce per definirci.
Ecco perché serve sentirsi ancora un po’ apprendisti. L’apprendista che è in noi è il nostro “inner child professionale”: quella parte viva, curiosa, capace di meraviglia e di mettersi in discussione. È quella voce che ci ricorda che si può non sapere, che si può chiedere, che imparare è anche sbagliare. Se perdiamo contatto con quella parte, rischiamo di perdere il senso più profondo del nostro lavoro.
Mantenere viva questa connessione significa anche mantenere flessibilità mentale, empatia, capacità di mettersi nei panni di chi sta iniziando. E non c’è professionista, per quanto esperto, che possa permettersi di perdere queste qualità.
L’apprendista che formi oggi
Formare un apprendista non è un compito delegabile alla sola struttura formativa. È una responsabilità diffusa, che appartiene a tutti coloro che lavorano accanto a chi sta imparando. Ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio comunica qualcosa. L’apprendista osserva, assimila, interiorizza. E quello che riceve oggi sarà il bagaglio professionale ed emotivo che porterà con sé domani.
Come tratto chi si affida a me per imparare? Sono un riferimento stabile o una fonte di ansia? Offro chiarezza o confusione? A volte una frase tagliente può annullare mesi di autostima guadagnata con fatica. Una pausa ascoltata bene può invece cambiare un’intera carriera. L’apprendista assorbe atteggiamenti prima ancora che competenze: ciò che insegniamo passa, soprattutto, attraverso ciò che siamo.
Solo i curanti insegnano ai curanti
Nel nostro mestiere, il confine tra chi fa e chi insegna è inesistente. Ogni turno condiviso è un’occasione educativa, anche quando non viene dichiarata tale. Ogni sguardo, ogni commento, ogni esitazione ha un impatto. Si insegna anche solo stando accanto, mostrando pazienza, accogliendo l’errore, mettendo in pratica il rispetto.
Non servono badge, né ruoli ufficiali: siamo tutti formatori. Anche chi non si sente tale. La qualità dell’ambiente di apprendimento dipende dal clima che contribuiamo a creare con il nostro atteggiamento. Un clima dove ci si sente autorizzati a chiedere, a fallire, a esistere. Accogliere un apprendista non è solo responsabilità del tutor: è responsabilità del gruppo. E dice molto anche su chi siamo diventati noi.
Motivazione: dove sei finita?
Ho ancora la stessa motivazione che avevo agli inizi? Quella che mi faceva restare anche dopo il turno, quella che mi dava energia solo guardando un paziente migliorare? O mi sono perso per strada? Sono diventato quello che da apprendista detestavo, quello che indicavo ai compagni dicendo: “Se un giorno divento così, fermatemi”?
Se qualcosa si è spento, non è la fine. È un segnale. Forse è tempo di fermarsi e ascoltarsi. Riconnettersi con le proprie radici, con quello che ci faceva vibrare. Perché senza motivazione, ogni gesto pesa il doppio, e ogni giornata diventa un esercizio di resistenza.
Il punto non è fare sempre tutto con entusiasmo, ma non lasciarsi prosciugare fino a diventare una caricatura spenta del proprio ruolo. Anche questo, a lungo andare, si trasmette. E chi ci guarda mentre lavora, lo percepisce.
Essere coerenti con chi siamo (stati)
La maturità non è diventare cinici. È saper restare dentro le difficoltà senza perdere il rispetto. L’apprendista che ero sarebbe fiero dell’operatore che sono diventato? O si sentirebbe deluso, come ci si sente quando si scopre che i “grandi” non sono poi così diversi da quelli che li ferivano?
Essere coerenti non significa essere perfetti. Significa restare fedeli a un’idea di dignità, di responsabilità, di cura. Guardarsi allo specchio e chiedersi: sto diventando quello che avrei voluto incontrare?
Non servono corsi, serve memoria
Non sempre servono corsi, aggiornamenti, strumenti nuovi. A volte serve solo memoria. Ricordare com’è stato per noi. Ricordare le mani tese, ma anche i muri. Ricordare cosa ci ha fatto bene e cosa ci ha fatto male. E scegliere, ogni giorno, di essere tra quelli che costruiscono, non tra quelli che abbattono.
Essere professionisti migliori non è questione di tecnica, ma di consapevolezza. E la consapevolezza nasce anche dal guardarsi indietro con onestà, senza indulgenza e senza rancore.
Siamo ancora, tutti, un po’ apprendisti. Ogni giorno, in qualcosa. Più restiamo vicini a quella parte di noi, più possiamo davvero accompagnare chi si affida a noi per imparare. Per crescere. Per diventare, un giorno, colleghi di cui andare fieri. Ed è forse proprio lì che si misura il nostro valore: nella capacità di restare umani, mentre insegniamo ad altri cosa vuol dire prendersi cura.