Entrare in una formazione sanitaria non significa solo imparare un mestiere. Significa anche esporsi: all’umano, al giudizio, alla fatica, al confronto. Per questo, il contesto formativo dovrebbe essere uno spazio protetto, dove si cresce con rigore, ma anche con rispetto e consapevolezza.
Eppure, capita spesso che a chi è in formazione vengano rivolte frasi che non aiutano. Anzi: scoraggiano, umiliano e mettono pressione in modo disfunzionale. Frasi che sembrano normali, quasi “pedagogiche”, ma che in realtà sono tossiche. E spesso dette da chi dovrebbe accompagnare, non giudicare.
Ecco alcune delle più ricorrenti, con un’analisi di perché non andrebbero mai dette.
1. “Non stai facendo il click nella tua formazione per passare al livello successivo”
Una frase apparentemente motivazionale, in realtà vagamente colpevolizzante.
Suggerisce che ci sia un momento magico in cui “scatta” qualcosa, e se non succede… è colpa tua. La realtà è che ogni persona ha tempi e modalità diverse di apprendere, e aspettarsi una svolta lineare e perfetta è irrealistico.
Poniamoci invece delle domande:
Stiamo aiutando davvero la persona a fare progressi?
Stiamo fissando obiettivi chiari e raggiungibili?
In che misura sono stati raggiunti?
È un problema solo dell’apprendista… o anche di chi lo accompagna nella formazione?
La persona che si sta formando, era già dipendente della struttura?
La stiamo vedendo come una nuova figura o le assegnamo i soliti stessi compiti?
2. “Se a scuola non prendi almeno 5 ti licenziamo”
Minacciare con il licenziamento non è formazione, è intimidazione. La scuola è il luogo per apprendere, sbagliare, migliorare. Chi apprende deve sentire il diritto di sbagliare, non la paura di farlo. Le conseguenze vanno discusse, contestualizzate, spiegate. Non usate come bastone punitivo.
Va anche detto che molti apprendisti adulti cercano di conciliare studio, lavoro e famiglia, spesso con figli piccoli e carichi mentali importanti.
In questo contesto, servono accompagnamento e flessibilità, non ricatti.
3. “Fai troppe domande, sei presuntuoso. Attieniti a quello che ti viene detto.”
Una delle più frequenti cause di litigio tra generazioni. Per chi forma, una domanda in più può sembrare una sfida. Per chi sta imparando, è semplicemente voglia di capire, non mancanza di rispetto.
La chiave sta nel rimettere le domande al centro della formazione: fanno parte dell’apprendimento, non lo disturbano.
Bloccarle significa spegnere curiosità, spirito critico, e anche sicurezza futura.
4. “Non vedi il lavoro”
Una frase vaga, che spesso nasconde irritazione più che un problema reale. Se una persona non “vede” qualcosa, serve aiutarla a capire, non colpevolizzarla.
È vero: alcune persone non sono adatte a questa professione. Ma non è di loro che stiamo parlando, e anche in quel caso, frasi vaghe e sprezzanti non aiutano a prendere coscienza.
Si può essere chiari e severi anche senza demolire.
5. “Se hai un periodo di ansia, vuol dire che soffri di ansia. Quindi dovresti fare un’altra professione.”
Non si dovrebbe mai pensare di essere immuni all’ansia, alla depressione, o ai tumulti dell’animo umano, inoltre, non compromette in ogni circostanza la capacità delle persone di occuparsi degli altri. Capita, a tutti. E quando capita, non esclude automaticamente da una professione d’aiuto.
Le fragilità emotive non vanno ignorate né banalizzate. Vanno comprese, ascoltate, integrate nel percorso.
Anzi: chi ha attraversato certi momenti sa spesso essere più empatico, più attento, più capace di leggere il disagio altrui.
6. “Davanti alla sofferenza devi costruire un muro. Non va bene essere sensibili.”
Questo muro non esiste, e non esisterà mai. Quando si assiste a qualcosa che colpisce, sarebbe sano e professionale elaborare le proprie emozioni, non negarle. Si tratta non di eccessiva emotività, ma del giusto coinvolgimento, che è parte integrante di una cura autentica.
Un curante che si dissocia completamente non è più efficace: è solo distante.
Il problema non è la sensibilità, ma l’incapacità di gestirla in modo strutturato. E questa si può (e si deve) imparare.
7. “Se fai cose in più, vizi i pazienti”
Prendersi cura non è viziare. Fare un gesto in più, offrire una parola gentile, ascoltare una storia… non è perdere tempo. È fare bene il proprio lavoro.
La rigidità fa male a chi cura e a chi è curato.
Chi si prende il tempo per fare qualcosa in più andrebbe sostenuto, non rimproverato.
Perché curare non è solo soddisfare bisogni base, è anche costruire una relazione basata sul rispetto e sul senso, non solo una serie di compiti o prestazioni da offrire in modo codificato.
Più rigore, meno durezza
Formare non significa indurire. Serve rigore, ma anche consapevolezza pedagogica. Serve dire le cose come stanno, ma con rispetto e precisione. La formazione sanitaria è già abbastanza difficile. Non serve caricarla di umiliazioni mascherate da “frasi di esperienza”.
Se sei un formatore, un collega, un responsabile: scegli bene le parole. E se sei un apprendista: ricordati che non sei solo, e che ogni domanda che poni è un passo in più verso la competenza, non un segno di debolezza.
Hai vissuto episodi simili? Scrivili nei commenti. Costruiamo insieme un vademecum del rispetto nella formazione sanitaria.