Stanchezza cronica e strategie invisibili
Turni spezzati, notti in bianco, corpi che sollevano altri corpi, emozioni che si stratificano senza tregua. Questo è il pane quotidiano di chi dedica la propria vita alla cura degli altri. Operatori Socio-Sanitari (OSS), infermieri, Ausiliari Sociosanitari (ASA), Assistenti alla Cura Sociale e Sanitaria (ACSS): professionisti che conoscono bene una stanchezza che nemmeno il sonno riesce davvero a lenire.
Non si tratta solo di affaticamento fisico. È un peso che si deposita in profondità, negli spazi vuoti tra un turno e l’altro, insinuandosi nei pensieri, nelle relazioni personali, nei momenti in cui la mente vorrebbe riposare ma non riesce. Questa stanchezza silenziosa si manifesta con apatia, nervosismo, insonnia, e viene spesso mascherata dal mito della forza: “siamo noi quelli forti”. Una forza che deve essere continua, impeccabile, sempre pronta. Ma a che prezzo?
Il mito della forza: a che prezzo?
Nel mondo sanitario, resistere è considerato un valore. Chi non si lamenta, chi lavora oltre il dovuto, chi si adatta a ogni richiesta viene lodato. Ma questo elogio della resilienza estrema produce una cultura tossica, dove il burnout non si nomina, e chiedere aiuto è vissuto come un fallimento.
La stanchezza diventa normalità. Il disagio psicologico si ignora, finché non esplode. In questa dinamica, la cura di sé viene vista come un privilegio, non come un diritto. Ma se il corpo trova riposo, la mente sovraccarica è più difficile da guarire. Il burnout, il distacco emotivo, la sensazione di essere svuotati sono esperienze reali, condivise da tanti e ancora troppo taciute.
Serve un cambio di rotta. Serve poter parlare di queste difficoltà, avere spazi sicuri in cui riconoscere i propri limiti e non vergognarsene. Serve un sistema che non premi solo chi si sacrifica, ma chi riesce a rimanere umano nonostante tutto.
Fatica fisica, peso emotivo
Oltre al mal di schiena e ai turni massacranti, chi lavora nella cura porta a casa il peso delle emozioni. Le parole dei pazienti, le lacrime trattenute, le tensioni con i familiari, le diagnosi senza speranza. Tutto questo rimane, si accumula, scava dentro.
Ci sono giorni in cui ci si sente impotenti, giorni in cui anche il più piccolo gesto può sembrare inutile. Eppure si continua. Per vocazione, per scelta, per necessità. Ma senza il giusto supporto, questo “continuare” può diventare autodistruttivo.
Riconoscere l’impatto emotivo del proprio lavoro è fondamentale. Creare momenti di condivisione, accedere a risorse di supporto psicologico, formare all’ascolto di sé stessi: tutto questo non è un lusso. È prevenzione. È salute pubblica.
Strategie invisibili per restare umani
Molti professionisti trovano modi personali per sopravvivere. C’è chi ascolta musica tra i turni, chi scrive un diario per dare ordine ai pensieri, chi cerca silenzio appena può. Ci sono piccoli rituali che tengono insieme le giornate: un caffè preparato con cura, una passeggiata, un libro durante la pausa.
Queste strategie invisibili non si insegnano nei corsi, ma salvano. Permettono di respirare, di ritrovarsi. E soprattutto, aiutano a non dimenticare che si è persone prima che professionisti.
Saper dire “no”, chiedere ferie prima di crollare, riconoscere i propri limiti: tutto questo è legittimo. È umano. E dovrebbe essere normale, non eccezionale.
Parlarne è già un primo passo. Nessuno può versare da una tazza vuota. Chi si prende cura, ha bisogno anche lui di cura.
Hai una tua strategia invisibile? Raccontacela nei commenti.