29 Mag 2025, Gio

A chi serve ancora il mobbing?

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La parola che non piace, ma che descrive bene

Nell’ambiente sanitario, il termine mobbing mette ancora a disagio. Suona scomodo, troppo forte per alcuni, troppo generico per altri. Eppure, descrive con precisione situazioni reali, quotidiane, che lasciano il segno: esclusioni silenziose, critiche ricorrenti, delegittimazioni sottili ma sistematiche. Non si tratta di litigi tra colleghi o di divergenze di opinione, ma di una strategia più o meno consapevole volta a spingere qualcuno ai margini.

Secondo la SECO e l’Ispettorato del lavoro del Canton Ticino, il mobbing è una forma di violazione dell’integrità personale e si manifesta attraverso comportamenti ostili, ripetitivi e prolungati, spesso finalizzati a escludere, screditare o destabilizzare una persona. Nel settore sanitario assume sfumature particolarmente pesanti, perché colpisce chi lavora a stretto contatto con la sofferenza e ha poco margine per difendersi.

Il mobbing può essere orizzontale, quando proviene da colleghi allo stesso livello (infermieri contro infermieri, operatori contro operatori), oppure verticale, quando chi lo esercita occupa una posizione gerarchicamente superiore. Il primo spesso si consuma sotto traccia, attraverso dinamiche relazionali alterate. Il secondo si manifesta con decisioni unilaterali, controllo eccessivo, richiami ripetuti usati come leva per demotivare o delegittimare.

I cinque volti del mobbing

Il modello proposto dallo psicologo Heinz Leymann resta uno degli strumenti più utili per identificare i comportamenti tipici del mobbing. Egli li ha suddivisi in cinque grandi categorie, tutte riscontrabili anche in ambito sanitario:

  • Attacchi alla comunicazione: si verifica quando qualcuno viene interrotto sistematicamente, ignorato durante le consegne o zittito davanti agli altri. Anche lasciare che le sue email restino senza risposta può diventare un segnale preciso.
  • Attacchi alle relazioni sociali: si isola una persona evitando di invitarla a momenti informali, escludendola dai pasti o facendo finta che non esista nei momenti collettivi. È il modo più rapido per farla sentire di troppo.
  • Attacchi all’immagine sociale: si ridicolizza chi sbaglia, si ironizza sulle sue capacità, si alimentano voci o soprannomi denigratori. A volte basta una battuta ripetuta troppe volte per lasciare un segno duraturo.
  • Attacchi al ruolo professionale: si smette di assegnare compiti significativi, si offrono incarichi impossibili da gestire o troppo umilianti, si revocano responsabilità senza spiegazioni. È un modo per togliere legittimità, più che per correggere.
  • Attacchi alla salute: si usano i turni come forma di pressione, si nega il recupero, si affida il paziente più aggressivo sempre alla stessa persona. Si punta sull’usura, non sulla crescita.

E poi ci sono i casi grigi, ma non meno dannosi. Anche solo il collega che, infastidito da un altro, lo segnala sistematicamente per ogni minimo errore o comportamento, non per contribuire a un miglior servizio, ma per metterlo in difficoltà. Il pretesto è la “professionalità”, ma il fine è l’esclusione. E in certi ambienti, questo comportamento viene persino premiato.

Quando la cultura del controllo diventa sistema

Non sempre il mobbing è un caso isolato. In alcune realtà diventa una strategia gestionale, un metodo implicito per esercitare il potere. È mobbing anche quando l’azienda usa la disciplina come unico strumento, dimenticando confronto e dialogo.

Succede quando un dipendente viene convocato ogni settimana per discutere dettagli insignificanti, o quando si tengono elenchi degli errori per ogni collaboratore con l’unico scopo di “averli in mano”. Quando si minaccia il licenziamento per banali dimenticanze, quando ogni azione viene osservata solo per essere corretta, mai per essere valorizzata.

È mobbing anche quello esercitato in nome della “visibilità”: visite a sorpresa nei reparti per cogliere in fallo, sguardi dall’alto che non cercano soluzioni ma colpevoli. Una cultura del sospetto che annulla ogni senso di squadra. E quando chi guida il gruppo abusa della sua posizione per creare pressione costante, non si parla più di leadership, ma di abuso.

L’azienda che non interviene perde tutti

Le conseguenze del mobbing non ricadono solo sulla vittima. Ogni clima avvelenato si riflette su chi resta. Secondo quanto rilevato dalla SECO e dall’Ispettorato del lavoro, le aziende che non prevengono o non intervengono in presenza di episodi di mobbing si espongono a gravi conseguenze organizzative: aumento dell’assenteismo, turn-over elevato, calo della qualità delle prestazioni, segnalazioni ufficiali e, nei casi più gravi, danni d’immagine o cause legali.

Nel contesto sanitario, questo ha un impatto diretto sulla qualità delle cure. Le équipe si disgregano, la fiducia scompare, la sicurezza dei pazienti può essere compromessa. Le nuove leve percepiscono l’ambiente come ostile e cercano di andarsene appena possibile. E chi resta spesso si chiude, si isola, si protegge. Non lavora più per crescere, ma per sopravvivere.

Come si costruisce un’alternativa concreta

Contrastare il mobbing non significa solo “punire chi sbaglia”. Significa prima di tutto prevenire, costruendo una cultura che riconosce il problema e lo disinnesca. Ogni azienda dovrebbe dotarsi di direttive scritte, formare le figure di riferimento, definire percorsi di segnalazione sicuri, gestire con rispetto anche i conflitti più difficili.

Non è un compito facile, ma è possibile. E conviene a tutti: lavoratori, dirigenti, pazienti. Un luogo di lavoro sano è anche un luogo più efficiente, più stabile, più capace di attrarre e trattenere competenze. Un contesto dove gli errori non si usano per colpire, ma per migliorare. Dove le persone non si osservano con diffidenza, ma si ascoltano con rispetto.

La legge c’è. L’articolo 6 della Legge sul lavoro impone ai datori di tutelare l’integrità personale dei dipendenti. Ma prima ancora della legge c’è una responsabilità collettiva: costruire ambienti che non si limitino a non mobbizzare, ma che scelgano attivamente il rispetto, la formazione e la fiducia come metodi di crescita.

Chi ci guadagna, davvero?

C’è chi pensa che il mobbing serva: a tenere in riga, a selezionare chi “non regge”, a mantenere l’ordine. Ma davvero conviene avere un’équipe che lavora nella paura? Dove si parla sottovoce, dove ci si copre a vicenda non per solidarietà, ma per sfuggire al bersaglio? Davvero serve un luogo dove chi sbaglia viene isolato, e chi resiste si spegne lentamente?

Un contesto che normalizza l’umiliazione non produce forza, produce adattamento. Il personale non cresce, si irrigidisce. I pazienti non si sentono accolti, si percepiscono tollerati. E chi può andarsene, se ne va.

Allora, la domanda resta aperta – come all’inizio, e forse più urgente adesso:
A chi serve ancora il mobbing?

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